|    Vesperale. Canto nella sera  che viene: più che una meditazione. Quasi una liturgia  di
        trasognate altezze, di raffinati incensi offerti alla delizia della gente tutta, senza separazioni o privilegi. "La  bellezza è un cielo aperto", fa sospirare Rostand al suo  Cyrano innamorato. La dolcezza delle colline di
        Castello: ci sono ancora campi coltivati, e i contadini conoscono la fragile sapienza dei proverbi. Oggi hanno l'abito
        della festa. Altrove, l'abito domenicale è la tuta generica. La mia gente è qui con altra gente venuta perfino da  lontano. La grande chiesa è piena.Eccoli, questi elegantissimi giovanotti che vanno in  chiesa di domenica a intonare il gregoriano e la
        polifonia nell'ora delirante degli stadi. Con gesti misurati e  morbidi sorrisi, un'esile ragazza li conduce
        nell'armonia delle voci e dei pensieri. Indica loro anche i respiri,  e le
        pressiomi dell'intensità della concessa fantasia personale, dove tutto il ricamare melodico si acquieta
        nella sillaba comune, il nodo dell'approdo estatico. Vesperale nell'attesa di Tobia, il Libro dell'esilio e
        dell'amore, della famiglia e dell'integrazione, pronto in dieci  tavole poetiche negli spazi della Rocca scaligera: dieci  grandi opere di Vico Calabrò con i commenti di
        Giovanni Battista Borsata, prete diocesano non agganciato alle maglie del servilismo e del potere.
 "Salva Regina" nell'ondeggiare melismatico del canto gregoriano. "Come una volta",
        si sussurra, dai primi  banchi nel ricordo dei vesperi. Il "Coenobium Vocale",  gruppo corale maschile di Piovene
        Rocchette diretto da  Maria Dal Bianco, inizia il suo concerto di Castello.
        Vesperale. E sarà un'ora di stupori.
 Dalle montagne di Montserrat, un'altra lode mariana, "Mariam
        Matrem", di quegli anonimi catalani che  lungo i secoli, ogni sera, hanno accompagnato l'ombra  che dal mare sale rapida alle valli dei Pirenéi. Il coro di  Maria Di Bianco esprime un gruppo di solisti con un  morbido controtenore dai ricciolini imbiondati all'Ora  Mediana. Perfino cinque "soli" nella trasparenza
        polifonica di Menilo, "Ave Maria", il momento più alto del  Vesperale nella grande chiesa dedicata alla
        Visitazione di Maria a Santa Elisabetta. Ecco allora Carl Orff  con "Mater et Filia", melodiare in terza popolare su
        pedali sfuggenti alle vaghe dissonanze. Poi Edvard Grieg,  sì, proprio lui; il solitario di Bergen, con i canti e le  danze dei fiordi, delle colombe innamorate, degli addii  senza malinconia.
 Ecco la Passione, Maria del dolore, Gerusalemme e il  desiderio di pace. Ma quale pace? «Non mettetela nelle  mani dei generali e dei politici» è stato gridato ad
        Assisi intorno alle mortificate speranze del papa sempre  più vecchio e sempre più solo. E ci si avvia alle
        modernità di Poulenc, di Orbàn, il rumeno che ancora crede alle  processioni popolari nel profumo delle rose. E i bis
        chiesti a voce alta dalla gente in piedi, pronta a scorrere il  sagrato per salire alla Rocca, alle magie bibliche di  Calabrò.
 Il Coenobium Vocale si allarga agli altari, si frammenta in voci lontane per intonare le fascinose
        suggestioni di Giovanni Bonato da Schio. Maria Dal Bianco,  ora, esprime in gesti appena disegnati il misterioso
        futuro della coralità.
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